Brano ventisei_ La nemesi dell'Aquila

 


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TRATTO DAL LIBRO
 "LA NEMESI DELL'AQUILA"

«La cerimonia nuziale si tenne nella città pavese, per non offendere il legittimo duca di Milano: Gian Galeazzo.» «Quindi, se ho ben capito, la giovane Beatrice, forse manovrata abilmente dallo stesso Enrico I, fece il doppio gioco a favore degli estensi, portando in dote a Ferrara il prezioso manoscritto originale, che sarebbe sicuramente servito alla città e ai suoi duchi per combattere lo strapotere della Chiesa. Tutto molto interessante, direi che è quello che è realmente accaduto. È sicuramente percorso storico fatto dal nostro misterioso scritto. Sarei curioso di sapere in che mani si trova adesso, anche se una mezza idea potrei averla.» «Teoricamente, caro Leo, potrebbe essere racchiuso, da secoli, nelle segrete vaticane. Dovrebbe esserne entrato in possesso il papa Clemente VIII, quando Alfonso II fu costretto a cedere il ducato, nel 1597. Se così fosse, sarebbe una brutta notizia, soprattutto per i nostri della Congrega dell’Aquila. Potrebbero dare un addio definitivo alla loro forsennata ricerca, fallendo il loro obiettivo primario,» concluse Samuele, quasi compiaciuto. «Ora, però, buttiamoci a capofitto su questo delizioso piatto di capesante gratinate, prima che si raffreddino.» Ero decisamente affamato. Fu solo l’antipasto di un’ottima cena, a base di pesce freschissimo e cotto a regola d’arte. Portai alla bocca il lungo calice di cristallo e degustai l’ultimo sorso di prosecco millesimato al suo interno, quando notai, con disappunto, che anche la bottiglia di vino era ormai vuota. Il professore sembrava avere lo sguardo un po’ perso nel nulla, forse per il troppo vino o forse per gli ultimi avvenimenti accaduti. Per sicurezza, volendo ricordargli l’appuntamento per la mattina dopo, in ufficio, lo ripetei un paio di volte, poi lo accompagnai all’albergo e lo salutai, dandogli la buonanotte, anche se non ritenevo fosse, in realtà, necessario.

                                                                                                                             Ufficio Squadra Anticrimine (Fe)
Ore 09:50 giovedì 29 maggio 2014

«Buongiorno a tutto l’ufficio Anticrimine!» Il professore si presentò così, agitando la mano destra in segno di saluto. «Ti vedo in gran forma, stamattina, hai dormito bene?» Fui sorpreso dal buonumore del mio amico. «Bene, molto bene e ho fatto un’ottima colazione abbondante, caro mio. Sono pronto per andare… dove tu sai.» «Va bene, andiamo subito.» Salutai Alessia, comunicandole che sarei stato in ufficio nel pomeriggio, augurandole, nel contempo, buon lavoro. «Arrivederci dottore, buon lavoro anche a lei,» rispose, sempre più sospettosa per il mio insolito comportamento. Ci dirigemmo, a piedi, verso la chiesa di San Domenico. La distanza dalla questura era irrisoria e l’aria fresca, per la pioggia caduta la notte prima, chiedeva di essere respirata a pieni polmoni. Il tempo per due parole ed eravamo davanti alla porticina d’ingresso dell’abitazione del Querini, proprio dietro la chiesa. Non volevo crederci, guardai subito Samuele, sorridendo divertito e anche lui sembrò meravigliato della presenza di quell’oggetto antiquato. Il campanello, sotto il nome, era uno di quei vecchi cicalini, che si giravano come una chiave, per fargli emettere un suono gracchiante. Ruotai alcune volte lo strano e vecchio aggeggio e attendemmo almeno un paio di minuti, prima che la porta cigolando, non ne avrei dubitato, si aprisse e comparisse un piccolo vecchietto dal volto sorridente. «Buongiorno, chi siete, brave persone?» Chiese, con voce calma e gentile, l’anziano signore. «Sono il vicequestore Ferrari e questo è il professor Lombardi dell’Università di Padova. Purtroppo, non siamo riusciti a fissare un appuntamento prima, perché lei non possiede un numero telefonico rintracciabile.» «E nemmeno un cellulare, per la verità,» rispose, sfoggiando un elegante sorriso ironico. «Attrezzi infernali, utili solo per giochini e far spendere soldi alla povera gente. Se dovessi avere, veramente, la necessità di fare una chiamata, mi faccio prestare il telefono senza filo dal mio vicino!» Come dargli torto, pensai. «Università di Padova, avete detto? Conoscete Augusto Rozzi? È una gran brava persona, molto simpatico e gentile. È stato qui da me l’anno scorso, sapete, doveva fare una ricerca,» riprese a dire, il vecchio frate. «Esatto, padre, è stato lui a indirizzarmi da lei,» garantì il professore, confermando la sua conoscenza. «Abbiamo il piacere di conoscerla, finalmente. Rozzi mi ha parlato tanto di lei e della sua straordinaria conoscenza della storia del cattolicesimo e della vita dei suoi personaggi. Il motivo per cui l’abbiamo disturbata e per cui siamo qui oggi, è che abbiamo, veramente, bisogno di una mano. Sappiamo che lei possiede un’eccezionale memoria storica e documenti introvabili che riguardano Ferrara, dal medioevo al rinascimento. In pratica, noi vorremmo, ringraziandola in anticipo per il suo aiuto e la sua disponibilità, venire a conoscenza degli avvenimenti accaduti nella Chiesa di San Domenico nel periodo dell’Inquisizione.» «Vede, figliuolo, sono un frate domenicano dal 1946. Vidi gli orrori della guerra e immediatamente la vocazione s’impossessò di me, come da tradizione familiare. Infatti, dovete sapere che, già nel 1252 il papa ordinò, a Ferrara, un arcivescovo del nostro nucleo, tale Giovanni Querini, che, tra l’altro, fu sempre in piena sintonia con gli estensi. Anche lo zio Leonardo prima di lui...» «Va bene, è tutto chiaro,» interruppi il frate in modo risoluto, evitando che ci raccontasse tutta la storia della sua ecclesiastica discendenza. «Ho capito, devo darvi notizie importanti per il vostro lavoro di ricerca. Chiedo scusa se ho divagato e parlato dei miei antenati, che però devo sempre ringraziare per avermi lasciato quegli scritti che ora voi mi chiedete di poter consultare.» Il suo tono di voce appariva un po’ risentito, forse per averlo interrotto nel suo racconto. «Aspettate un attimo, vado a cercare qualche documento del periodo che vi interessa. Torno subito, posso offrirvi qualcosa da bere intanto, un tè caldo, un bicchiere d’ acqua fresca, buonissima, del pozzo dietro casa?» «No, grazie, siamo a posto così, aspettiamo qui seduti, faccia pure con calma,» rispose rapido Lombardi, arricciando il naso, guardandomi sorpreso e ripetendo sottovoce: «Acqua del pozzo?» Passarono quindici o forse venti minuti prima che il frate ritornasse nella piccola cucina, dove ci aveva fatto accomodare. «Ecco,» esordì euforico, quasi come fosse la prima volta che vedeva quelle antiche carte, ammuffite dal tempo, «qui c’è sicuramente quello che cercate!» Mi allungò una busta di plastica forata nel lato lungo, come quelle da inserire nei raccoglitori. Conteneva un foglio ingiallito, scritto con un inchiostro ormai sbiadito, opaco. «Questo è del 1235. È scritto in latino medioevale e parla di un domenicano, un certo frate Jacopo Navarra da Ferrara che depositò, nella Cappella Canani, qui in San Domenico, un prezioso manoscritto, riposto e protetto in una cartella di pelle bruna, impreziosita con fregi papali dorati.» Lombardi s’inarcò, si diresse verso di me e come fosse in trance, cercò d’impossessarsi della busta di plastica, contenente il prezioso foglio, per poterlo leggere. «Ecco la prova che cercavamo. Il manoscritto è qui in San Domenico, nascosto da qualche parte!» Lo dichiarò convinto, dopo aver letto quelle poche righe di testo antico. Il vecchio frate lo bloccò immediatamente, togliendogli subito ogni illusione e qualsivoglia certezza. «Non è più in questa chiesa dal 1293. Fu rubato insieme ad altri oggetti sacri, reliquie e opere d’arte. 

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Ascoltiamo e leggiamo insieme il 4°- 5°- 6° brano dal mio giallo "La nemesi dell'Aquila", ambientato nella splendida Ferrara.