Brano trentadue_ La nemesi dell'Aquila


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TRATTO DAL LIBRO
 "LA NEMESI DELL'AQUILA"

Lei per me è indispensabile, lo tenga sempre presente, qualsiasi cosa succeda.» «Grazie, dottore, la saluto, vado a casa a preparare qualcosa da mangiare per la mia famiglia.» Presi commiato dalla mia valida collaboratrice e mi diressi verso Samuele, che era stato muto e seduto sul divanetto degli ospiti fino a quel momento. Posi la mano sinistra sulla sua spalla e lo invitai con il gesto della mano destra ad accomodarsi alla mia scrivania.
«Samuele,» iniziai a parlare, mentre il professore si sedette davanti a me «abbiamo pochissimo tempo, Zocchi potrebbe chiamare da un momento all’altro.» «Hai trovato qualcosa di nuovo e di interessante nei meandri della storia di Ferrara o in quella di Dante, che possa esserci utile? Stamattina non ho avuto il tempo di chiedertelo, ora lo faccio, ti prego, dimmi di sì!» «Sì, lo confermo, ho trovato, scartabellando negli Archivi estensi, uno scritto olografo, che pare essere di Giambattista Nicolucci, più conosciuto come Pigna, nato e morto a Ferrara nel 1500. Divenne lo storico ufficiale degli estensi e provvide all’educazione del giovane Alfonso II, futuro duca. Letterato, molto legato anche al Vincenzo Maggi, con cui divise la stesura di molti testi del periodo. Non è dato sapere se Pigna facesse parte di qualche congrega o se praticasse credi religiosi diversi da quello cattolico. Quello che ci interessa riguarda le importanti informazioni che, questa lettera, ci porta a conoscenza. «Maggi,» continuò «era un assiduo frequentatore di riunioni particolari, di chiara matrice eretica. A una di queste conobbe Benedetto Fontanini, anche lui restio ai dogmi ecclesiastici e amico del Rioli, detto il siculo, con cui discusse pericolosi temi, riguardanti il dissenso e le possibili riforme alla Chiesa cattolica. Alla fine, Benedetto venne inquisito per eresia nel 1548, salvandosi dal rogo, solo perché facente parte dell’ordine benedettino. Il Fontanini fu rettore dell’abbazia di Santa Maria a Pomposa, in Codigoro, nella provincia di Ferrara, dal 1544 e in quel luogo recuperò uno scritto di Dante, che vi aveva soggiornato prima della sua morte. «Probabilmente Maggi riuscì a leggerlo e trovò interessante discutere il testo con Pigna, forse per convincere il segretario del duca ad assimilare alcune delle sue teorie riformiste. In realtà lo scritto non poneva questioni religiose o politiche, ma spiegava solamente gli avvenimenti che avevano portato Dante a venire in possesso del misterioso manoscritto eretico e di come avesse usato le azioni nefande della Chiesa e dei suoi vicari, descritte nel testo, per riportarle nelle sue appendici del cantico dell’Inferno, nel girone degli eretici.» Lombardi concluse la sua prefazione e mi porse il foglio su cui aveva stampato la lettera, già da lui tradotta dal linguaggio in uso nel XVI secolo al nostro italiano, che aveva trovato. Il testo inizia spiegando che tutto cominciò con un furto sacrilego, avvenuto nel 1293 in una chiesa di Ferrara, a opera di un noto ladro pistoiese e questo ci era già stato riferito dal frate Querini che ci informò pure del manoscritto, riposto e protetto in una cartella di pelle bruna, impreziosita con fregi dorati. Non sapevo, lo scoprì leggendo, che il ladro, analfabeta, quindi non in grado di capire il vero valore di quell’antico tomo, cercò di venderlo per pochi fiorini a un notaio, tale Vannini, rendendolo suo complice. Nicolucci continua, descrivendo l’importanza di Dante, come magistrato, nella Firenze del XIII secolo, del sequestro del documento e dell’arresto del notaio ricettatore. Lombardi interruppe la mia lettura per farmi sapere che si era documentato anche sul ladro sacrilego, di cui la lettera non parlava. Questo furfante era ben noto a Dante, per diversi furti e un omicidio. Cercò di catturarlo senza riuscirci, questo lo irritò parecchio, soprattutto perché originario di una città che lui odiava, Pistoia. Non riuscì mai trovarlo, ma si ripromise di parlarne male, se mai avesse scritto qualcosa che riguardasse i ladri. Il professore chiuse questa sua parentesi guardandomi con un sorriso ironico. Ripresi a leggere, il testo metteva in evidenza che ovviamente Dante si era reso conto dell’enorme importanza politica e coercitiva del documento e che non si sarebbe fatto scrupolo di utilizzarlo, qualora se ne fosse presentata l’occasione. «Pigna parla anche di un profondo turbamento del Poeta che, inoltratosi nella lettura di quel testo, riconobbe insinuarsi in lui, anche non volutamente, forti pensieri eretici e turbamenti spirituali che si ritroveranno, spesso, anche, nella Divina Commedia.» Volli sottolineare, a voce alta, questo passaggio per fare intervenire Samuele che, pur conoscendo il testo perfettamente avendo letto la lettera prima di me, sapevo desiderava aggiungere il proprio pensiero. «Esatto,» confermò «lo sostengo io e altri autorevoli pensatori moderni, non sapendo però, almeno fino a oggi, a cosa imputare quello strano smarrimento religioso. Forse, proprio il manoscritto potrebbe essere stata la vera causa. Proseguendo la nostra lettura, comunque, troviamo un riferimento storico di cui siamo a conoscenza: il viaggio a Roma che intraprese Dante, mandato dalla Repubblica di Firenze, con funzioni di messo diplomatico. Il tentativo era quello di distogliere il papa dalle sue mire egemoniche, evitando di mettere a ferro e fuoco la città gigliata. Purtroppo, l’unico interesse del Pontefice era di perdere tempo e non di fermarne la conquista. Lo scrivano ferrarese afferma che il manoscritto venne usato dal Sommo Poeta, per la prima volta, come arma di ricatto verso la Chiesa. «L’Alighieri ebbe l’ardire di farlo consultare a chi, in quel momento, rappresentava la classe ecclesiastica al potere. Sua Santità trasalì, ebbe, certamente, un piccolo mancamento leggendo le orribili azioni dei suoi predecessori, parole terribili che scorrevano davanti ai suoi occhi increduli. «Il Villanova, che in quel periodo era il suo medico personale, fu testimone involontario della reazione repentina del papa stesso. Ordinò di bruciare, immediatamente, la cartella dorata con tutti i documenti, ritenendo così di aver risolto il problema. «Nella fretta di liberarsi di quella patata bollente, non si accorse della mancanza dei sigilli papali alla fine dei fogli che confermano l’originalità del manoscritto stesso.
Infatti, astutamente, prevedendo la mossa del Pontefice, l’Alighieri aveva copiato i fogli originali, mantenendo l’involucro dorato. «Gli avvenimenti, a seguire questi episodi segreti tramandati da Pigna, sono storia, conosciuta da tutti. Il papa, non contento, dopo un paio d’anni, sicuramente irritato e offeso dal tentativo di ricatto e con Firenze già in mano ai Guelfi neri, si prodigò per perseguire tutti i politici di parte bianca, a lui ostili. «Furono tempi bui per il nostro Dante, che fu esiliato e poi condannato a morte se avesse fatto ritorno a Firenze. In seguito, venne ospitato da diversi signori del tempo. Si spostò spesso e qui ci aiuta, nella cronologia degli avvenimenti, il Villanova, descrivendo l’incontro a Padova con Pietro d’Abano a cui lasciò, da consultare, il manoscritto originale. Il resto di questa storia lo abbiamo già visto e valutato. «Poi, sappiamo che l’Alighieri continuò a comporre la Commedia e terminerà l’Inferno nel periodo che va fino al 1309. Il Purgatorio lo finì prima del 1312 e poi si dedicò al cantico del Paradiso che venne ultimato alla corte di Guido Novello da Polenta, a Ravenna, nel periodo che va dal 1318 alla sua morte, nel 1321.»

 

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