Brano due_ La nemesi dell'Aquila

 


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TRATTO DAL LIBRO
 "LA NEMESI DELL'AQUILA"


Curiosamente mancavano la terza, la sesta e anche la nona nella fila di dodici. Erano state prelevate seguendo una precisa sequenza matematica, come se fossero state posizionate appositamente in quell’ordine da qualcuno. Prima di andarmene dalla cantina con i miei uomini e dal casale stesso, scattai alcune buone foto alle bottiglie piene, vicine agli spazi vuoti dello scaffale. Avrei poi usato quegli scatti digitali per cercare informazioni su quell’antico vino, partendo dal nome presente sulle etichette che erano scritte a mano e incollate sul vetro. Uscii dalla casa del delitto, dirigendomi verso l’auto blu di servizio. Guardandomi intorno, notai che nella villetta rossa, vicino alla casa rurale, una vecchia signora si teneva il volto con un fazzoletto. Ero troppo lontano per affermare, con certezza, se stesse piangendo o se in realtà fosse solo raffreddata, ma appariva molto incuriosita dalla nostra presenza. Mi diressi all’ingresso della sua casa. La donna mi vide arrivare e si avvicinò rapidamente al piccolo cancello di alluminio anodizzato. Premette velocemente il pulsante di apertura, permettendomi di entrare. Porsi cordialmente la mano, anticipandola. «Buongiorno, sono Leone Ferrari, vicequestore dell’Anticrimine di Ferrara.» L’anziana signora mi guardò molto sospettosa. «Cosa vuole da me, signore? Non ho nulla da dirle,» replicò timorosa. «Intanto grazie per avermi aperto. Desideravo avere alcune informazioni sul signor Camponeschi, quello della casa qui accanto. Con chi ho il piacere di parlare?» Chiesi gentilmente. «Maria Rosa Bolchi,» rispose senza abbozzare alcun sorriso di cortesia. «Le sto facendo queste domande perché ho la necessità di sapere tutto quello che può dirmi sul suo vicino. Quindi la prego di rispondere con sincerità.» «Gli è successo qualcosa? Sono molto amica di Raimondo, ci conosciamo da tanto tempo!» «Mi dispiace, signora, ma le indagini sono riservate e non posso entrare nei dettagli, né tanto meno rivelare alcunché. Adesso, però, mi racconti quello che sa su Camponeschi e la sua famiglia, se veramente vuole aiutare il suo amico.» «Lo conosco da quando si era trasferito da Roma con la moglie e il figlio più giovane. Abita in quella casa da circa 15 anni. Insieme al mio povero marito, eravamo diventati buoni amici e ci frequentavamo spesso e volentieri. Una buona pensione, i figli sistemati bene a Roma e Varese. Possiede, anche, un’ottima forma fisica. Che io ricordi, non ha mai avuto un raffreddore e nemmeno una malattia. Se posso chiedere… Hanno rubato qualcosa in casa?» Si incuriosì la vecchia signora Bolchi. Senza attendere la mia risposta, spiegò il perché della sua domanda. «Chiedo perché Raimondo possiede arredi di immenso valore. Si vanta sempre di avere antenati antichissimi e di discendere da una nobile famiglia che, di generazione in generazione, aveva tramandato agli eredi beni tra i più preziosi. Oggetti di arredamento, vino, gioielli, quadri, fin dal XV secolo.» «Anche le terre e il casale dove vive è un lascito di vecchia data, appartenevano alla sua famosa famiglia da secoli.» «Molto interessante, altre cose che vi vengono in mente?» Evitando di rispondere se fosse o meno avvenuto un furto. «No, non ricordo nulla di particolare, è una persona tranquilla, normale, un uomo onesto e un caro amico.» «Ha visto qualcuno avvicinarsi al rustico o a uscirne, in questi ultimi giorni?» Incalzai. «Rimango spesso a lavorare in giardino e non mi sembra di aver visto qualcuno avvicinarsi, ultimamente. Nessuno è entrato o uscito dal casale, che io ricordi,» rispose. «L’ultima domanda, chi fa visita al signor Camponeschi, abitualmente?» «Nessuno, è molto tempo che vive in completa solitudine, non ha conoscenti o parenti che lo vengano a trovare. Talvolta, quando si sente troppo solo, viene da me a prendere un caffè e a scambiare due parole sui bei tempi andati. Devo dirle che sono molto dispiaciuta di non essere stata utile ma non succede mai nulla di strano qui... almeno fino a oggi, credo!» La donna s’irrigidì per un secondo, buttò gli occhi al cielo, sembrò ricordare qualcosa, all’improvviso: «Veramente, ripensandoci, alcuni giorni fa è successo qualcosa di strano. Un uomo, alto e robusto sui quaranta, con uno scooter giallo e la divisa da postino s'infilò nel vialetto che porta alla casa di Raimondo. L’ho notato perché noi, in via Selva, siamo serviti da una postina da almeno sei anni. Poi ho pensato che si potesse trattare di una consegna diversa, dalla solita posta ordinaria e me ne sono dimenticata. Ricordo, però, che non l’ho più visto uscire dal casale. Mio dio, adesso che ci penso, potrebbe aver fatto del male a Raimondo! È così?» «Potrebbe essere successo, potrebbe essere andata così, non posso escluderlo, ma non posso confermarlo,» risposi volutamente in modo criptico. «Ricorda per caso che giorno e ora fosse?» Gettò, ancora una volta, gli occhi al cielo, notai che erano molto limpidi e di un bel blu scuro. Pensai, guardandola bene, che, da giovane, doveva essere stata una bellissima donna. «Penso... credo, saranno state le 10:00 o le 11:00 di mattina di giovedì o venerdì. Sono i giorni e le ore in cui, come oggi, dedico al giardino, piaceva tanto a mio marito, sa?» Qualcosa d’interessante era uscito dalla bocca della vecchia vicina. Abbastanza soddisfatto, salutai Maria Rosa con un gesto del braccio dal finestrino dell’auto, mentre mi allontanavo, coi miei colleghi, da via Selva. Le mie nuove considerazioni tenevano conto anche di una, per quanto remota, ipotesi di crimine a scopo di lucro, mascherato da un delitto d’inaudita violenza. Questo e altri possibili moventi, sarebbero stati, il giorno dopo, l’oggetto del colloquio con il questore, il dottor Marco Della Casa. Il caso, come era prevedibile, avrebbe scosso l’opinione pubblica. I giornali, locali e nazionali, avrebbero parlato diffusamente dell’orribile omicidio e a quel punto, come sempre accade, inizieranno gli strali e le minacce dei potenti ai loro subordinati diretti. La patata bollente sarebbe toccata a tutti, in una cascata di assunzione di responsabilità, dal gradino più alto fino a scendere all’ultimo degli agenti. Risolvere questo caso sarebbe diventata la condizione primaria per continuare a vivere tranquilli.

Questura: Ercole I d’Este (Fe) 

 Ore 08:30 martedì 13 maggio 2014

Entrai, quasi di soppiatto, attraversando il grande portone di Palazzo Camerini, sede della Questura di Ferrara. Salutai distrattamente i due soliti agenti all’ingresso. Salii le scale in tutta fretta, temendo di incrociare chi potesse, con un gesto o una parola, contaminare i miei pensieri, già molto confusi, che si rincorrevano e si mescolavano con strane ipotesi notturne. La mente, ormai, completamente presa dall’omicidio Camponeschi, era stanca di tutte quelle tremende immagini che avevano accompagnato e turbato il mio sonno agitato. Avevo cercato idee e avevo trovato solamente improbabili soluzioni. Cercavo un movente, un’ipotesi e avevo trovato solo violenza e follia pura. Arrivai, così, al primo piano, girai a destra e seguendo il lungo corridoio entrai velocemente nel mio ufficio, la terza porta a sinistra dopo la grande scala. Sulla porta, la targa lucida di ottone, con una recente incisione: “Squadra anticrimine” e appena sotto, più in piccolo: “vicequestore dottor L. Ferrari”. Ero molto orgoglioso di quella carica e del mio nome scritto a chiare lettere sulla piastra dorata. 



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