Brano dodici_ La nemesi dell'Aquila



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TRATTO DAL LIBRO
 "LA NEMESI DELL'AQUILA"

Poi si rese conto di cosa avrebbe potuto significare quel chiavistello rotto e visibilmente angosciata s’impaurì. «Madonnina santa, i ladri. Presto, andiamo a vedere se stanotte hanno rubato qualcosa all’interno. Chiama subito le altre sorelle e controlliamo tutte le stanze, vediamo se manca qualcosa. Telefona anche alla polizia... è meglio.» Le monache erano state tutte allertate e come tante formichine, quando giravano intorno a un pezzo di pane, si muovevano vorticosamente, in squadra, cercando di ricordare tutto quello che c’era in una stanza del convento e adesso magari non c’era più. Improvvisamente, due suore vicino al pozzo, quasi al centro del giardino, davanti al ciliegio, richiamarono l’attenzione delle altre a loro più vicine. Una di queste teneva in mano, incredula, un pezzo di carta e lo stava leggendo sottovoce, da sola. Poi alzò la voce e cominciò:

«Per la terza volta giongi al godimento della tortura, per chi non haveria voluto confessar vero strazio facto disonestamente a tutti i modi nei tempi sui. Et qual mater tal Augeri che intendendo le cose e sapendo quelle essere bugiarde, haveria finanzo quel che meritava.»

Un brivido freddo percorse la schiena della suora mentre indicava il luogo del ritrovamento del biglietto. Era la tavola di legno massiccio, rotonda, che chiudeva l’apertura del pozzo. La copertura appariva rigirata. L’anello in ferro battuto, che serviva come presa per togliere il coperchio alla cisterna, era scomparso. Si trovava, evidentemente, rivolto verso il fondo del pozzo che, anche se inutilizzato, era ancora funzionante e conteneva acqua di sorgente, gelida e profonda. Tutti i presenti, a quel punto, avevano paura di scoprire cosa si celasse dall’altra parte della copertura di legno. «Aspettiamo la polizia,» esortò, una suora nel gruppo, la prima a parlare. «Nessuno tocchi niente,» le fece eco madre Cecilia, che intanto era tornata nel piccolo cortile, richiamata dal suono delle parole, lette ad alta voce, nel terribile messaggio. Un’autopattuglia della polizia si arrestò davanti al cancello del giardino del convento, bloccando l’ingresso della stretta via. La monaca si diresse immediatamente incontro ai due poliziotti che erano scesi dalla vettura. Vennero subito informati, con poche ma chiare parole, del ritrovamento e del testo del foglio, rinvenuto sul coperchio del pozzo e di come fosse stato rivoltato. «Se quello che penso è vero, dobbiamo temere un altro omicidio. Meglio avvertire subito l’Anticrimine. Dubito molto si tratti di un furto,» sostenne con assoluta determinazione l’agente che sembrava il più anziano, rivolgendosi al collega. Questi rispose prontamente, dirigendosi verso l’auto di pattuglia. Aprì la portiera, accese la radio e chiamò la centrale, richiedendo l’intervento immediato della squadra speciale Anticrimine e spiegandone il motivo. Come da procedura d’urgenza, valutando il poco spazio disponibile, spostò subito la volante in un luogo dove non fosse d’intralcio all’arrivo di altre auto pattuglie e/o dei mezzi di soccorso. Infine, diligentemente, prese dal baule il nastro giallo che, dopo l’arrivo della squadra, avrebbe dovuto delimitare la zona del crimine. Sempre di corsa si spostò all’inizio della via che s’incrociava con via Beatrice II d’Este, per chiuderla con il nastro dopo il passaggio dell’auto del vicequestore e delle auto di servizio. Come da procedura, avrebbe atteso, in loco, l’arrivo delle ambulanze e della scientifica per chiudere definitivamente vicolo Gambone. «Leone, presto, ti vogliono al telefono urgentemente, forse un altro omicidio!» La voce agitata di mia moglie risuonò minacciosa e inopportuna, fuori dalla porta del bagno. «Arrivo subito,» risposi, notando, però, come le brutte notizie arrivavano sempre di domenica e sempre quando eri in bagno a fare i cavoli tuoi! Il “momento” bagno è il tempo considerato da me e credo da molti, come l’unico in cui i tuoi pensieri e le tue fantasie sono liberi di esprimersi, senza che qualcuno si intrometta e ti rechi disturbo come in questo caso! Cominciai a vestirmi, rapidamente, lasciando perdere alcune azioni quotidiane che normalmente vanno fatte, quando il tempo ti lascia lo spazio per farle. La fretta è spesso deleteria quando si tratta di comprendere e attuare decisioni importanti e conduce spesso a commettere errori grossolani. Uscii dal bagno, Emma mi aspettava, con i calzoni e la camicia in una mano e la giacca nell’altra. Dopo tanti anni, vissuti con un poliziotto, aveva acquisito un’assoluta padronanza nella gestione delle situazioni di emergenza. Il cellulare, in vivavoce, continuava a spandere per la casa la voce rauca di Nardi. «Dottore, sto arrivando con l’auto, due minuti e sono sotto casa sua.» «Bene sto scendendo,» annunciai, gridando la mia risposta sullo smartphone ancora sul tavolo. Lo raccolsi e lo infilai acceso nella tasca della giacca, un veloce bacio sulla guancia di mia moglie e mi allontanai definitivamente da una tranquilla domenica in famiglia. Venti minuti, dopo che il giovane agente chiamò la centrale operativa, furono sufficienti perché l’auto di servizio, con me a bordo, giungesse davanti all’ingresso dell’antico monastero benedettino. Insieme all’ispettore capo Nardi e ai due agenti Chiusi e Salvatori, mi diressi verso il pozzetto dove ci aspettava l’anziano capo pattuglia che era intervenuto, in prima battuta, alla chiamata fatta dalle suore del convento. La madre superiora, intanto, aveva fatto giustamente allontanare le consorelle dietro il nastro che delimita la possibile zona incriminata. Ero molto nervoso e teso. Ero certo che avremmo trovato di sicuro un altro cadavere in quella cisterna. Il foglio ritrovato dalla novizia era stato sicuramente scritto dalla stessa mano coinvolta nel caso Camponeschi. Bisognava comunque verificarlo, ma era purtroppo ovvio che si trattasse del medesimo colpevole. Tutti, me compreso, si erano già infilati i guanti e le soprascarpe per non inquinare le eventuali prove per la scientifica. Provammo a sollevare a otto mani il coperchio, ma ci rendemmo subito conto che esso era tenuto serrato verso il basso da un peso notevole. Quindi per alzarlo e finalmente avere la certezza di cosa vi fosse appeso, infilammo con forza, sotto il coperchio, una sbarra di acciaio, tipo piede di porco, procurata da Salvatori, che la custodiva nel bagagliaio dell’auto di servizio, perché come diceva sempre lui: “poteva sempre servire” e anche questa volta aveva avuto ragione! Iniziammo a fare leva con l’altra estremità della sbarra, usando il robusto bordo di pietra del pozzo come fulcro. Riuscimmo così a creare un pertugio, attraverso il quale, con la luce della pila elettrica, illuminare l’interno. Si notava, chiaramente, una corda tesa che scendeva nella cavità, fissata con un grosso nodo, all’anello della copertura. Anche per salvaguardare il bordo del secolare pozzo, decisi che sarebbe stato opportuno usare un paranco, per sollevare il coperchio con annessa, presunta, spiacevole sorpresa. «Nardi, per piacere, cerchi una ditta, qualcuno che possa fare questo tipo di lavoro, mentre io interrogo le suore presenti per sapere cosa hanno visto e sentito,» mi rivolsi così al mio ispettore capo, poi, senza aspettare risposta, mi diressi verso quella che sembrava essere la madre badessa. «Buongiorno, sorella, posso farle qualche domanda? Sono il dottor Ferrari, il responsabile della squadra Anticrimine. Qualcuna delle sue consorelle ha informazioni utili per le indagini?» «Mi spiace, ma sembra proprio che stanotte nessuna di loro abbia udito rumori o altro,» rispose madre Cecilia, con il disappunto di non poter essere d’aiuto. Un forte grido, seguito da un’evocazione di aiuto divino, interruppe le parole della madre superiora. 



 

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