Brano uno_ La nemesi dell'Aquila
CAPITOLO UNO
Località: Quartesana (Fe)
Ore 08:45 lunedì 12 maggio 2014
La casa rurale costruita almeno 250 anni fa, in vecchia pietra a vista, appariva ben conservata. Il grande orto, sulla destra della facciata principale, era curato e completo di ogni tipo di ortaggi. L’erba, intorno allo stretto viale non asfaltato, ma ricoperto da ghiaia sottile, cresceva verde e ben tagliata. Un’antica e splendida bicicletta Bianchi, di colore nero, perfettamente conservata, stava riposando i suoi vecchi ingranaggi, appoggiata contro il muro della casa rivolto a ovest. A piano terra, era visibile un’entrata ad arco che, più tardi avrei saputo, immetteva in un corto portico cieco, da cui si accedeva, attraverso una porta di legno antico, ad una grande cantina. Per prima cosa, mi diressi verso quella che sembrava essere l’entrata principale della casa. Una scaletta in pietra che saliva al primo piano, seguiva i contorni del piccolo portico e terminava con un balcone fiorito e la piccola porta principale, sormontata da una tettoia rudimentale. Era una vecchia porta, con una nuova serratura, usurata dal tempo, ma si notava come fosse stata riverniciata da poco. Le quattro finestre, nella stessa facciata, erano aperte e avevano anch’esse infissi originali dell’epoca e vernice fresca. L’uscio si aprì cigolando. Stefano e Roberto dietro di me puntarono verso l’interno le mitragliette d’ordinanza. Il sole illuminava tutta la stanza, entrando prepotentemente dalle grandi vetrate della casa di campagna. Nulla faceva presagire quello che avremmo trovato in seguito. Entrai per primo, senza paura, disarmato come al solito. Avevo sempre avuto una profonda repulsione per tutte le armi. Alla mia vista, nessuna presenza umana. Mi abbassai, comunque, per abitudine sulle ginocchia, avanzando lentamente verso il centro della grande sala, dove era posizionato un lungo tavolo in legno massello. I due agenti imitarono il mio comportamento, dividendosi e avanzando, ognuno, a ridosso delle due pareti laterali, facendosi scudo, nel caso, con i mobili presenti. La camera aveva due porte in legno, entrambe chiuse, una nell’estremo lato sinistro della parete di fronte a me. L’altra, invece, era, quasi alla fine del muro, alla mia destra. Decisi di iniziare da quella. Invitai gli agenti a posizionarsi. Come da manuale, aprii di scatto la porta e in un baleno tutti e tre eravamo all’interno della stanza. Un bagno grande e luminoso, fortunatamente vuoto. Una grande finestra dava sul cortile a est. Stranamente, per quel luogo, l’odore che si respirava era piacevole. Chi viveva in quella casa aveva amore per la pulizia e il buon profumo. Avevo notato che anche nella sala da pranzo, così come nel bagno, erano presenti alcune splendide e costose piante da appartamento. Notai che lo specchio, sul lavabo di porcellana, era un antico e prezioso oggetto d’arte con cornice e fregi laminati in oro zecchino. Avevo appreso qualche piccola ma importante nozione di antiquariato ascoltando mia moglie Emma che amava raccontarmi le sue esperienze, maturate visitando mercanti d’arte e affini. Distolsi i miei pensieri dallo specchio e uscii dal bagno insieme ai miei uomini. Mi concentrai sull’ultimo locale da ispezionare in quel piano. La porta verniciata di bianco immetteva, probabilmente, nella cucina. Mentre mi avvicinavo, prendeva forza uno strano senso di disagio che non avevo mai avvertito nelle precedenti e pur numerose perquisizioni, eseguite in una ventennale carriera, nella Polizia. La segnalazione era arrivata un’ora prima, dal comando provinciale dei Carabinieri. Una lettera, pervenuta con una busta anonima, alla stazione di Cona (Fe), aveva fatto scattare il pronto intervento della nostra Squadra anticrimine. I militari presenti nella piccola caserma non avevano potuto vedere chi avesse recapitato la lettera, mescolata con il resto della posta normale. Il testo del messaggio era stato scritto in lingua comprensibile, ma con uno strano lessico antico, dove la nostra grammatica e la sintassi erano stati stravolti. Il riferimento alla località e all’indirizzo era chiaro. Purtroppo, anche il cognome della presunta vittima trovava corrispondenza con l’abitazione indicata sulla minacciosa missiva. Prima di avviarmi, insieme alla mia squadra, verso il luogo indicato, la rilessi più volte e ogni volta trovavo quel messaggio sempre più inquietante e possibile.
Vagai a cavallo al bricco, et quando io giongi in un loco a adimandato Quartesana, presso la via della Selva e nella qual casa haveria godimento, per le torture e per aver ammazzato lo homo, tal Camponeschi, dil qual cognosco malefico legame.
Quelle parole, terribili, rimbalzavano nella mia testa e il preoccupante silenzio, della stanza chiusa, amplificava la mia ansia, mentre lentamente impugnavo la maniglia e facendo leva verso il basso, udì distintamente il rumore della serratura che scattava, aprendo la porta. Stefano balzò in avanti, con l’arma puntata all’interno del locale, completamente buio. Roberto imitò l’azione del collega, posizionandosi sul lato sinistro dell’ingresso. La grossa torcia in dotazione illuminò il centro della stanza e il fascio di luce della potente lampada evidenziò la spettrale figura di un corpo immobile che pendeva dal soffitto. L’odore nauseabondo della decomposizione arrivò alle narici, inaspettato e per primo. «Apra quella cazzo di finestra.» Urlai all’agente alla mia sinistra. Roberto corse ad aprire la grande porta finestra e la splendida luce del giorno entrò decisa e invadente a illuminare la scena dell’orribile delitto. Un uomo nudo, scarno in volto e magrissimo, stava appeso al centro della camera, con il braccio sinistro legato a una catena arrugginita, fissata a una trave del soffitto. L’apertura della finestra aveva creato una forte corrente d’aria, sufficiente a innescare il macabro dondolio del cadavere. Sul vecchio pavimento, di cotto rosso, sotto il corpo sospeso, si era formata una grande e densa pozza di liquido vischioso, di colore scuro, simile all’olio di scarto di un motore. Mi avvicinai, cautamente, senza toccare o calpestare nulla, per esaminare meglio, la povera vittima. Da un breve primo esame visivo, sul corpo sospeso, capii subito che i colpevoli avevano infierito sull’uomo, versando dell’olio bollente su tutto il corpo. Pensai a più di una persona, vista la difficoltà di portare un corpo a quell’altezza. Era evidente che lo strato superficiale della pelle e quello immediatamente sottostante erano completamente bruciati. Erano presenti, ben visibili, anche delle grosse vesciche, ripiene di liquido. Potevo solo immaginare l’immenso dolore che quell’uomo aveva sofferto, durante quelle torture. Inoltre, al cadavere sembrava mancare completamente anche lo scroto. «Chiami subito i ragazzi dell’unità di analisi del crimine violento,» ordinai rivolgendomi a Roberto. Uscii dalla stanza, tenendomi ancora stretto il naso con le dita, per non dover subire, ulteriormente, gli effluvi maleodoranti presenti nella cucina. Scesi nel cortile antistante la casa, respirai una lunga boccata d’aria fresca e radunai i miei uomini intorno a me: «Non ho mai visto nulla di simile, spero non mi accada mai più nella vita. Ok, ora facciamo il punto della situazione. Il nostro intervento è terminato. Ogni altro sopralluogo spetta alla scientifica. A questo punto non ci resta che aspettare i loro rilievi tecnico-scientifici. «Sono esperti di omicidi particolarmente efferati come questo. L’esame e le analisi della scena del delitto, la raccolta delle tracce e la ricostruzione tridimensionale dell'evento criminale, ci permetterà di comprendere meglio le strane dinamiche di questo caso, indirizzando le indagini nella giusta direzione. Adesso, vorrei continuare la perquisizione, in quella che credo sia la cantina, sperando di non trovare altre brutte sorprese.» Mi diressi verso il portico in pietra, situato nella parte ovest del rustico. Il portone dello scantinato era socchiuso, come se qualcuno avesse lasciato il locale con una certa fretta, non curandosi di chiudere dietro di sé la porta. Non poteva essere stato il proprietario, nessun padrone di casa lo farebbe. Scendemmo, con cautela, la corta scala in pietra verso il sotterraneo. Il forte odore di muffa copriva, in parte, il profumo degli insaccati lasciati a invecchiare, legati come al solito, alle travi del soffitto. Sulla sinistra, ben allineate, cinque botti in legno di castagno con, marchiato a fuoco, l’anno di costruzione, 1770. Sulla destra una serie di scaffali, pieni di vecchie bottiglie di vino, completamente ricoperte da uno spesso strato di polvere. Guardando meglio, osservando lo scaffale più in alto, notai la mancanza di tre pezzi. Infatti, la polvere non aveva avuto il tempo di depositarsi nei vani vuoti. Erano state evidentemente rimosse da pochissimo tempo.
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