Brano tre_ La nemesi dell'Aquila
Un assassinio così brutale, come quello di Quartesana, era imprevedibile, in una città dove, negli ultimi quattro anni, gli omicidi si contavano sulle dita di una mano. Crimini violenti e traffico di droga con annessi e connessi, purtroppo, erano frequenti come in tutte le altre città d’Italia. In compenso, la sera però, era ancora possibile passeggiare per le strade, senza il terrore di essere rapinati, picchiati o uccisi. Sedetti alla mia scrivania, meccanicamente estrassi il cellulare e osservai, ancora una volta, le foto del cadavere “bollito” appeso alle travi del soffitto della cucina. L’ispettrice mi distolse da quella brutta visione, passandomi un paio di fogli, con i dati e le notizie che aveva trovato sulla vittima. Il rapporto iniziava così: Raimondo Camponeschi, pensionato da quattro anni, nato a Roma il 26 febbraio 1945. Sposato, con due figli maschi: Carlo di 32 e Andrea di 40 anni. La prima moglie era morta da tempo, per un infarto e i due figli, entrambi sposati con prole, vivevano con le loro famiglie; rispettivamente: uno a Roma e uno a Varese. La casa rurale era di proprietà della famiglia Camponeschi, da centinaia d’anni. L’uomo era in buona salute e buona forma fisica, come già sapevo. La situazione economica appariva discreta. In banca aveva un conto, un libretto di risparmio, con 355mila euro che gli avrebbero comunque permesso, insieme a una buona pensione mensile di 1780 euro, una serena vecchiaia. Nessun precedente penale, non possedeva l’automobile e si spostava a piedi o con la bicicletta che avevo visto all’esterno della casa. Non risultava che la vittima avesse nemici o avesse ricevuto minacce di morte. Il portafoglio era stato trovato con, all’interno, 350 euro in contanti, in un cassetto della cucina, completo dei documenti personali. Nulla faceva pensare a un regolamento di conti o a una rapina. Mentre leggevo, cercavo di capire quale fosse stato il movente. Accanirsi così tanto su un uomo dalla vita apparentemente normale, senza un valido motivo, rendeva sempre più intricata quest’indagine. Una delle chiavi del mistero stava, probabilmente, nelle parole del messaggio pervenuto ai Carabinieri. La lettera conteneva precisi riferimenti al delitto e alla sua dinamica. Il macabro rituale della tortura, di cui l’assassino si compiaceva, era quasi sottolineato, come se volesse rendere tutti partecipi della sua gioia, usando le parole: “del suo godimento”. Al momento non potevo sapere se l’omicida avesse lasciato qualche impronta o se i ragazzi in tuta bianca avessero trovato qualche buon indizio. Era necessario attendere qualche giorno per i risultati della scientifica. Il mio sguardo si spostò, dal foglio che stavo leggendo, alla scrivania dell’ispettrice Marini. «Può dedicarmi un minuto?» «Certo, Commissario,» rispose prontamente, alzandosi e dirigendosi verso la mia. «Mi hanno confermato l’ottima posizione economica e mi hanno descritto una persona ottima, generosa, con un’antica famiglia storica e prestigiosa alle spalle, su cui vorrei indagare insieme a lei. Ritengo probabile il fatto che questo contatto con il 1500 ci possa aiutare nelle indagini.» Anche lo strano lessico, usato dal nostro killer, sembrava appartenere a un lontano passato. «Dobbiamo necessariamente scoprire che tipo di linguaggio abbia usato l’autore del messaggio, lasciato alla stazione dell’Arma.» «Giusto,» replicò Alessia. «Useremo la fotocopia del messaggio, perché l’originale, ovviamente è a Roma per le eventuali impronte. Seguiremo qualsiasi pista. Eventualmente cerchi di consultare qualcuno che sia un esperto dei linguaggi del periodo in esame. L’importante sarebbe avere risposte certe, entro breve tempo,» conclusi. «Ovviamente,» rispose Alessia, con la sua solita sicurezza. Potevo contare sulla mia aiutante, diligente, esperta e precisa, dotata di un ottimo intuito. Da quando sono a Ferrara, è sempre stata il mio valido braccio destro, in tutte le indagini dell’Anticrimine. Si alzò dalla sedia della mia scrivania e in un batter d’occhio si posizionò alla tastiera del suo computer, iniziando a lavorare subito al compito che le avevo affidato. Era un piacere guardarla mentre, con grande impegno professionale, svolgeva il suo ruolo nell’indagine. Rimasi a fissarla, forse una decina di secondi. Ammiravo l’estrema concentrazione con cui fissava quel suo monitor, cercando le giuste risposte alle tante domande che, sicuramente, anche a lei, mescolavano nella testa. I fasci di luce bluastri, provocati dal cambio pagina sullo schermo, provocavano piccoli lampi, riflessi nella montatura dorata degli occhiali. Dritta allo scopo, come quando quattro anni fa decise di sposare il suo Enrico, senza che al pover’uomo fosse concesso il diritto di obiettare. La splendida fotografia di due piccoli angioletti, un maschio e una femmina, posizionata sulla scrivania, bene in vista per tutti, era l’orgoglio e forse l’unica vanità di mamma Alessia. Pensai fosse giunto il momento di abbandonare il piacere di osservare l’operato della mia collega e dedicarmi alla visione delle foto, scattate con il mio smartphone, nella cantina della vittima. Nelle foto si poteva leggere chiaramente l’etichetta delle bottiglie di vino. Quelle rimaste, disposte di fianco a quelle che pensavo fossero state rimosse dallo stesso assassino. Erano di vetro grosso, scuro, con una lunga etichetta bordata in argento con un timbro papale al centro di ceralacca. Una serie di scritte a mano: “Vino Gaglioppo”, più sotto “Monastero di Poggio Valle”. A seguire, con caratteri più grandi, su due livelli: “Santità di Nostro Signore e Papa Paolo IV O.M.B.P”. Scoprì, più tardi, essere l’acronimo di “Ottimo Massimo Beatissimo Padre”. Indubbiamente, si trattava di vino di enorme valore. Risultò, da successive ricerche, essere stato imbottigliato nel periodo compreso tra la seconda metà e la fine del 1500. L’ipotesi del furto tornava quindi di attualità. Era il movente più logico. Rubare tre bottiglie rarissime dal valore inestimabile, ma perché non tutte? Continuavo a non spiegarmelo, comunque, come l’atrocità gratuita, legata al gesto criminale, che stavo esaminando. Informai l’ispettrice delle mie ulteriori ricerche sulle bottiglie scomparse. Guardai l’orologio, erano già le 16:10. Mi diressi verso l’ufficio del questore che mi stava aspettando, per un inevitabile briefing sul caso. Infine gli notificai che avevo saputo da Alessia dell’appuntamento in ufficio, fissato la mattina del 14 maggio, con i figli della vittima, sperando in quell’occasione, di avere maggiori notizie sul loro rapporto col padre e i legami con gli altri familiari. Carlo e Andrea avrebbero dovuto, nell’occasione, espletare alcuni gravosi e imprescindibili compiti: il riconoscimento del corpo o almeno quanto ne restava, il funerale e infine sistemare tutte le noiose pratiche burocratiche che fanno parte dell’iter di un decesso.
CAPITOLO DUE
Questura di Ferrara
Ore 09:00 mercoledì 14 maggio 2014
Andrea Camponeschi entrò puntuale dalla porta, gettò uno sguardo interrogativo verso l’ispettrice Alessia, lesse la targhetta posta sulla sua scrivania e senza esitare si diresse verso la mia postazione. Protese la destra, scandendo nome e cognome, aspettandosi da me lo stesso gesto. «Si accomodi, sono il vicequestore Ferrari,» informai, con enfasi, eludendo la prevedibile risposta al suo gesto di saluto e costringendolo a sentirsi un po’ a disagio, nei miei confronti. Una vecchia strategia di approccio, sempre valida quando non conosci bene il tuo interlocutore.
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