Brano tredici_ La nemesi dell'Aquila



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TRATTO DAL LIBRO
 "LA NEMESI DELL'AQUILA"

 
Suor Teresa, con le mani giunte, dall’angolo più a sud del giardino, continuava a gridare e invocare tutti i santi del Paradiso fissando qualcosa in terra. Mi precipitai verso di lei, seguito da molte altre suore presenti e dalla stessa badessa. Nell’angolo cieco del muretto interno al cortile c’era il corpo inerme di un piccolo cane. «Toby, oh, povero Toby!» Madre Cecilia, riconobbe il cane della signora Lidia. La bestiola era stata soffocata usando il suo stesso guinzaglio. «Conosce il proprietario di questo povero animale?» Chiesi alla sorella che ne aveva pronunciato il nome. «Certamente, è Toby, il cane della signora Augeri. Viene spesso a trovarci, per godere insieme a noi della vista del nostro ciliegio in fiore e a complimentarsi per il nostro bel giardino, soprattutto di come ne abbiamo cura.» Adesso sapevo, quasi con certezza, chi potesse essere la persona appesa al coperchio del pozzetto. Era già trascorsa mezz’ora da quando Nardi era riuscito a trovare la ditta che avrebbe mandato i suoi dipendenti per sollevare la macabra copertura di legno. Guardavo nervosamente l’ora, digitalizzata nel cellulare. Già da molti anni avevo rinunciato a portare l’orologio al polso. Molto meno elegante, ma molto più comodo leggere il tempo che passava sullo smartphone. Mentre facevo questa banale considerazione, sopraggiunsero finalmente tre operai, con un robusto treppiedi già montato e sormontato da una grossa carrucola a scatto. Un grosso cavo d’acciaio fu assicurato e incrociato sopra e sotto la tavola di legno, in modo da avvolgerla saldamente e quindi assicurato in modo appropriato a un gancio, a cui venne fissato un altro cavo fatto poi scorrere nella carrucola. All’altra estremità i tre forti operai cominciarono a sollevare la copertura, utilizzando come aiuto il meccanismo della carrucola che fermava a ogni scatto il possibile ritorno verso il fondo del carico sospeso. Lentamente, ma inesorabilmente, un corpo umano fradicio d’acqua cominciò a risalire dal pozzo, rivelando il suo genere femminile. La donna penzolava dalla corda fissata al grosso anello di ferro, legata per le caviglie. Appena si riuscì a far emergere oltre la metà del corpo, i tre operai aiutati anche da un paio d’agenti iniziarono a estrarre dal pozzo la povera vittima, afferrando con le mani la grossa corda che tratteneva il cadavere, trascinandolo fuori. Alla fine dello sforzo, il corpo venne adagiato sull’erba, vicino al pozzo. La signora Augeri era completamente nuda e con le mani legate, come se il suo carnefice avesse avuto paura che la donna potesse mai liberarsi da quella posizione, immersa com’era nell’acqua. Dalla bocca, aperta, s’intravedeva un pezzo di pietra di colore nero, forse introdotta per evitare che urlasse. Una sottile striscia di liquido viscido e chiaro, simile a un sapone liquido, cominciava a uscire dalle narici dilatate della vittima. Gli occhi aperti e sbarrati mi fecero propendere verso la terribile ipotesi che Lidia fosse ancora viva quando fu fatta scendere nell’acqua gelida e che fosse morta affogata. Un altro duro lavoro, per noi e per la scientifica. Tre delitti atroci, in pochi giorni, nella tranquilla città di Ferrara erano, fino a oggi, impensabili. Dopo l’incontro con Lombardi, i pochi dubbi che mi erano rimasti su questi delitti, in particolare se fossero o meno rituali, erano completamente scomparsi. Improvvisamente, l’ispettore Nardi, come preso da un raptus irrefrenabile, decise di esprimere a voce alta e forte il suo pensiero. «Un maledetto serial killer, ecco chi ci è capitato tra capo e collo, un pazzo che adora uccidere con metodi brutali, un bastardo psicopatico.» «Forse più di uno,» replicai «forse più di uno, caro Nardi!» Insistetti convinto. «Un uomo solo, come abbiamo visto, non avrebbe potuto fare tutto questo. Negli ultimi due delitti, così come li vediamo nella loro dinamica, erano necessarie più persone per attuarli.» «Ora è ufficiale, abbiamo tre crimini legati tra loro dallo stesso filo di crudeltà. I nostri misteriosi assassini sono un gruppo di fanatici.» Asserii, sicuro e preoccupato. Composi il numero della sezione scientifica della polizia per richiedere gli esperti sul luogo del delitto. Ero sicuro che, anche in questa scena del crimine, non si sarebbero trovate prove utili a identificare questi mostri, ma era necessario provare, comunque, a cercarle. Salii in auto. Al volante c’era l’agente Chiusi che mi stava aspettando. «Dove andiamo, dottore?» «Portami a casa. Ho bisogno di concentrarmi e di pensare alla mia famiglia.»

Ufficio Squadra Anticrimine (Fe)
Ore 11:00 lunedì 19 maggio 2014

Alessia, appena entrato in ufficio, mi aveva portato la cartella con i risultati della scientifica dell’omicidio di Carlo Camponeschi, chiedendomi più volte di consultarla, ma io non avevo toccato quel fascicolo per tutta la mattina. Stavo fingendo che quelle maledette cartelle riguardanti i primi due delitti e che occupavano spazio sulla mia scrivania, non fossero mai esistite e che quindi non fosse mai accaduto nulla di tutto quell’orrore che io e la mia squadra stavamo vivendo. Purtroppo, erano lì, presenti. Presto si sarebbero aggiunte anche quelle per il terzo omicidio. Mi stavo chiedendo se esistesse un collegamento storico del cognome Augeri con quello del Camponeschi. Questa riflessione mi fece ricordare l’appuntamento telefonico con il mio esperto rinascimentale. «Pronto? Professor Lombardi, sono Ferrari.» «Ha già dimenticato, vero? Per lei solo Samuele,» rispose. «Mi dispiace, per ora, non riesco proprio a chiamarla solo per nome, mi conceda almeno prof, come vi chiamavamo a scuola.» «Va bene, concesso, che notizie mi porta?» «Pessime, prof, pessime. Abbiamo un altro terribile omicidio, poi con calma le spiegherò i particolari, quando ci vedremo. Adesso però, ho una domanda veloce per lei. Muoio dalla curiosità di saperlo. Il cognome Augeri le ricorda qualcosa?» «Augeri… Augeri… credo di ricordare che abbia, anche questo cognome, un legame con qualche papa. Sarò più preciso dopo un’attenta ricerca. Piuttosto, quando ha detto che ci vedremo?» Chiese Lombardi. «Il P.M. mi ha fatto sapere che il mandato sarà pronto domani mattina verso le 09:00, quindi se per lei va bene fisserei un incontro qui da me, alle 10:00.» «Le farò sapere oggi pomeriggio, intanto la saluto, Leone. Ha visto, mi sono ricordato!» «A presto, prof,» risposi, sorridendo tra me e me per il termine scolaresco. Aprii finalmente, a malincuore, con un rapido movimento, la cartella di Carlo. Sapevo già cosa avrei trovato. Una descrizione della sua morte, più o meno simile a quella del padre, con un finale non meno orribile, ma decisamente diverso. L’impalare gente non era una pratica molto comune nella nostra società civile e nei secoli recenti. Andai comunque a leggere direttamente il rapporto finale e le conclusioni della dottoressa Serena Agostani. Il referto autoptico e il soprascritto rapporto evidenziavano che il soggetto ignoto aveva inizialmente sopraffatto la vittima, narcotizzando con il cloroformio. I rilievi effettuati e il referto legale inducevano a presumere che il momento dell’avvenuta aggressione potesse risalire a nove o undici ore prima del ritrovamento del cadavere. Anche qui, l’asportazione di entrambi i testicoli (non ritrovati) con arma da taglio seghettata (non trovata). Confermata la morte per strangolamento con laccio (non ritrovato), avvenuta circa dieci ore prima del rinvenimento. Successivamente, la vittima era stata infilzata, utilizzando le aste appuntite e congiunte di due letti, partendo dallo sfintere, attraversando l’intestino, il cuore e l’esofago, uscendo dalla bocca. La solita mancanza totale di tracce su tutta la scena del crimine e di reperti concludeva il macabro rapporto. 

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